da W. Quattrociocchi – A. Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, Franco Angeli, Milano, 2016, pp. 40-41
Analfabetismo funzionale e argomentazioni
Come il caso del timone di Giada insegna, e come gli eventi appena citati confermano, la disinformazione diventa più pericolosa quando dalle camere della rete si sposta nelle stanze della realtà e in quelle dei nostri rappresentanti politici. Molto spesso le interrogazioni parlamentari sono frutto delle ricerche di volenterosi collaboratori (spesso male o non pagati) che si affannano nello scandagliare il web per trovare spunti interessanti per i nostri deputati e senatori. Il problema sorge quando questa ricerca non si affianca un attento lavoro di scelta, filtro e di verifica delle fonti. Peggio ancora quando i nostri rappresentanti in Parlamento o i loro assistenti mostrano doti poco brillanti nell’esercizio di analisi e di interpretazione del reale, E così fra il lavori delle commissioni parlamentari compaiono interrogazioni a tema ufo, scie chimiche, automobile ad aria compressa, 11 settembre. La colpa potrebbe ritrovarsi in quello che viene identificato come “analfabetismo funzionale”, Cioè – secondo la definizione dell’OCSE – l’incapacità di una persona di impegnarsi/essere coinvolta in tutte quelle attività in cui l’alfabetizzazione è richiesta per un funzionamento efficace del suo gruppo e della sua comunità e per il suo sviluppo e quello della sua stessa comunità.
Sempre l’OCSE nel 2013 ha pubblicato i”Primi risultati dello studio sulle competenze degli adulti”, sottolineando come la rivoluzione tecnologica del XX secolo abbia di fatto cambiato la necessità di competenze in tutti gli ambiti che toccano l’uomo, dalla comunicazione, al modo di fare acquisti, al lavoro. Oggi i lavoratori devono possedere, infatti, un bagaglio di competenze “per comprendere, utilizzare comunicare le informazioni e diverse competenze di natura più generale, tra cui la capacità di comunicazione interpersonale, l’autogestione e la capacità di apprendere, competenze che devono aiutare a superare le incertezze di un mercato del lavoro che cambia rapidamente”.
In questo scenario l’OCSE ha realizzato uno studio sulle capacità di adulti fra i 16 e i 65 anni, appartenenti a 22 Stati membri, di utilizzare in maniera consapevole le nuove tecnologie, partendo da un’analisi molto più ampia sull’alfabetizzazione delle persone chiamate in causa. Nel dettaglio emerge che ben il 42% degli italiani è sotto la media UE. Nella scala della capacità di comprensione e di analisi dei testi – che ba che va da 1 a 5, dove 1 è il livello minimo e 5 il massimo, – l’adulto italiano si pone nel livello 2: sa collegare due o più parti di informazione e fare inferenze di basso livello. Sa però navigare all’interno dei testi che trova in rete e identificare le informazioni di un documento. Il 27,7% degli italiani adulti, invece, non è in grado di fare neanche questo e si pone quindi al livello 1 della scala. L’Italia non è sola: ha il punteggio più basso – 252 – di tutti paesi che hanno partecipato all’indagine, seguita dalla Spagna che è l’ultima della classifica. E anche modificando i parametri matematici il risultato cambia poco, ultima o penultima. Del resto anche il professor Tullio de Mauro, già nel 2011, nel corso di un incontro a Firenze dal titolo “Leggere e sapere: la scuola degli italiani”, aveva riportato dati piuttosto allarmanti: “il 71% della popolazione si ritrova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà: il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di 5 ed è fa orte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana”.
Sintesi del volume in inglese a cura dell’autore (da sito CNR)
Anteprima del volume (da Google books)
da T. De Mauro, Analfabetismo strumentale, funzionale e di ritorno, pagina a cura di Gabriella Giudici (insegnante al Liceo statale delle Scienze umane Assunta Pieralli di Perugia)
L’analfabetismo funzionale
Con il termine analfabetismo funzionale si designa l’incapacità di un individuo di usare in modo efficiente le abilità di lettura, scrittura e calcolo nelle situazioni della vita quotidiana. Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace
“di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.
Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.
Più del 50% degli italiani, dice De Mauro, si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo
T. De Mauro, Il problema dell’analfabetismo funzionale in Italia, intervento su Internazionale.it attualmente rimosso e recuperato da Rifondazione.it
Il problema dell’analfabetismo funzionale in Italia
Solo il 20 per cento degli adulti italiani sa veramente leggere, scrivere e contare – Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea.
Questi dati risultano da due diverse indagini comparative svolte nel 1999-2000 e nel 2004-2005 in diversi paesi. Ad accurati campioni di popolazione in età lavorativa è stato chiesto di rispondere a questionari: uno, elementarissimo, di accesso, e cinque di difficoltà crescente. Si sono così potute osservare le effettive capacità di lettura, comprensione e calcolo degli intervistati, e nella seconda indagine anche le capacità di problem solving.
I risultati sono interessanti per molti aspetti. Sacche di popolazione a rischio di analfabetismo (persone ferme ai questionari uno e due) si trovano anche in società progredite. Ma non nelle dimensioni italiane (circa l’80 per cento in entrambe le prove). Tra i paesi partecipanti all’indagine l’Italia batte quasi tutti. Solo lo stato del Nuevo Léon, in Messico, ha risultati peggiori. I dati sono stati resi pubblici in Italia nel 2001 e nel 2006. Ma senza reazioni apprezzabili da parte dei mezzi di informazione e dei leader politici. Nelle ultime settimane, però, alcuni mezzi di informazione hanno parlato con curiosità del fatto che parecchi laureati italiani uniscono la laurea a un sostanziale, letterale analfabetismo. Questa curiosità vagamente moralistica è meglio di niente?
No, non è meglio, se porta a distrarre l’attenzione dalla ben più estesa e massiccia presenza di persone incapaci di leggere, scrivere e far di conto (quello che in inglese chiamiamo illiteracy e innumeracy e in italiano diciamo, complessivamente, analfabetismo). È notevole che l’analfabetismo numerico (l’incapacità di cavarsela con una percentuale o con un grafico) non abbia neanche un nome usuale nella nostra lingua.
È grave non saper leggere, scrivere e far di conto? Per alcuni millenni – dopo che erano nati e si erano diffusi sistemi di scrittura e cifrazione – leggere, scrivere e far di conto furono un bene di cui si avvantaggiava l’intera vita sociale: era importante che alcuni lo sapessero fare per garantire proprietà, conoscenze, pratiche religiose, memorie di rilievo collettivo, amministrazione della giustizia. Ma nelle società aristocratiche a base agricola, purché ci fossero alcuni letterati, la maggioranza poteva fare tranquillamente a meno di queste capacità. I saperi essenziali venivano trasmessi oralmente e perfino senza parole. Anche i potenti potevano infischiarsene, purché disponessero di scribi depositari di quelle arti.
Carlo V poteva reggere un immenso impero, ma aveva difficoltà perfino a fare la firma autografa. Le cose sono cambiate in tempi relativamente recenti almeno in alcune aree del mondo. Dal cinquecento in parte d’Europa la spinta della riforma protestante, con l’affermarsi del diritto-dovere di leggere direttamente Bibbia e Vangelo senza mediazioni del clero, si è combinata con una necessità creata dal progredire di industrializzazione e urbanizzazione: quella del possesso diffuso di un sapere almeno minimo. In seguito è sopravvenuta l’idea che tutti i maschi abbienti, poi tutti i maschi in genere, infine perfino le donne, potessero avere parte nelle decisioni politiche.
La “democrazia dei moderni” e i movimenti socialisti hanno fatto apparire indispensabile che tutti imparassero a leggere, scrivere e far di conto. Il solo saper parlare non bastava più. E in quelle che dagli anni settanta del novecento chiamiamo pomposamente “società postmoderne” o “della conoscenza”, leggere, scrivere e far di conto servono sempre, ma per acquisire livelli ben più alti di conoscenza necessari oggi all’inclusione, anzi a sopravvivere in autonomia.
L’analfabetismo italiano ha radici profonde. Ancora negli anni ’50 il paese viveva soprattutto di agricoltura e poteva permettersi di avere il 59,2 per cento della popolazione senza titolo di studio e per metà totalmente analfabeta (come oggi il 5 per cento).
Fuga dai campi, bassi costi della manodopera, ingegnosità (gli “spiriti vitali” evocati dal presidente Napolitano) lo hanno fatto transitare nello spazio di una generazione attraverso una fase industriale fino alla fase postindustriale. Nonostante gli avvertimenti di alcuni (da Umberto Zanotti Bianco o Giuseppe Di Vittorio a Paolo Sylos Labini), l’invito a investire nelle conoscenze non è stato raccolto né dai partiti politici né dalla mitica “gente”.
Secondo alcuni economisti il ristagno produttivo italiano, che dura dagli anni novanta, è frutto dei bassi livelli di competenza. Ma nessuno li ascolta; e nessuno ascolta neanche quelli che vedono la povertà nazionale di conoscenze come un fatto negativo anzitutto per il funzionamento delle scuole e per la vita sociale e democratica.
Ndr: nella pagina si segnalano anche
T. De Mauro, Analfabetismo di ritorno, ecco perché gli italiani votano con la pancia, intervista a Ilfattoquotidiano.it